Di Caterina Civallero

Cosa spinga alcune persone ad agire compulsivamente nei confronti del cibo è per molti versi ancora un mistero. Il rapporto intrinseco che si instaura fra noi e il cibo riguarda, innanzitutto, la soddisfazione di un bisogno primario che ha come ricompensa il piacere.

Cibo e aria sono per l’uomo un boccone solo, ne ho parlato a lungo in un articolo dal titolo Il boccone e la boccata d’aria pubblicato anche su Visione Alchemica che il 7 Aprile 2020 alle 21.21 ha ospitato, in diretta, DONNE e un filo di Seta nella puntata Web Radio a loro dedicata. (La puntata è disponibile anche su Spotify).

Respirare vivere mangiare, sono per l’uomo, un unico gesto.

Ma la bulimia descrive un movimento che spinge a portare da fuori a dentro e poi pentirsi, come se qualcosa si opponesse al godimento.

L’abbuffata in questo contesto diviene una sorta di amplesso che delude e spinge alla ricerca di un nuovo orgasmo. Siamo perfettamente coscienti del percorso a cui è destinato il cibo del bulimico: entra, sosta brevemente, ed esce da dove è entrato, oppure resta nello stomaco dilatato in attesa di essere smaltito.

Di norma la vita passa nel corpo, sotto forma di cibo, dall’alto verso il basso, ma nei casi in cui il bulimico attiva la pratica del rigettare fuori si crea un vortice, e ciò che entra viene espulso poco dopo, volutamente.

Per il bulimico che non rigetta, il malloppo sosta nel sacco gastrico in attesa di essere digerito, lasciando il vorace mangiatore a lacrimare come un coccodrillo per la paura di ingrassare.

Nel primo dei due casi, se pensiamo che la persona coinvolta provi pentimento siamo in errore, poiché la sfera infinita di emozioni che coinvolge il bulimico respingente a operare il suo raid alimentare ha una coordinazione perfetta: egli mangia smodatamente con la mera intenzione di rigettare.

Il capitolo del libro DONNE e un filo di Seta, dal Social al Libro, intitolato ‘Perché non riesco a smettere?’ di Rachele Manzoni esprime intensamente tutto ciò: “Alcune volte uscivo a cavallo e galoppavo fino allo sfinimento, con l’adrenalina che mi pervadeva; poi incredibilmente riprovavo le stesse sensazioni nel correre tra gli scaffali del supermercato, seguendo il percorso memorizzato per arrivare velocemente alla cassa, tornare a casa e terminare il ‘rito’. Quando ero in grado di resistere arrivavo alla cucina; altre volte organizzavo le borse per avere sottomano le cose che si possono consumare alla guida dell’auto. E poi il programma televisivo trash che accompagnava ogni volta l’interminabile abbuffata. Perché non dovevo concentrarmi su nulla, men che meno sul cibo che ingurgitavo”.

L’autrice del capitolo, a un certo punto, fa riferimento a un’opera teatrale del 1635, La vita è sogno di Calderon de La Barca.

Il dramma narra di Sigismondo, principe di Polonia: orfano di madre dalla nascita, vive imprigionato in una torre dal padre re Basilio a causa di una profezia secondo la quale una volta divenuto re, Sigismondo, sarebbe diventato un terribile tiranno crudele e violento.

Sigismondo cresce, e il padre, per provare quale sia la sua vera natura, lo fa portare a corte, facendolo prelevare a sua insaputa, mentre dorme.

Al risveglio a corte Sigismondo scopre la verità sulla sua reclusione e reagisce con estrema violenza, convincendo il re della profezia.

Facile provare la validità di una profezia con l’inganno, penserete; lo penso anch’io.

Sigismondo viene dunque riportato nella torre, nuovamente con l’inganno poiché viene drogato, e convinto che ciò che ha vissuto in stato di ira fosse soltanto un sogno.

Il disorientamento di Sigismondo è tale da indurlo a pensare che solo la morte possiede l’unica verità capace di svelare i segreti dell’esistenza umana.

Quando verrà nuovamente liberato, si troverà a tu per tu con quel padre ingannevole e traditore che lo ha obbligato a ridimensionare il suo rapporto con la realtà, ma avendo lui stesso maturato una soluzione, che lo porta a essere cosciente dell’infelicità propria dell’uomo, sceglierà la via del perdono e della giustizia.

Sigismondo e la bulimia, come sono collegati?

Il filo che li connette è la distorta acquisizione del concetto di realtà.

Molto probabilmente Rachele Manzoni, nel suo racconto, adopera la figura di Sigismondo per raccontarci qualcosa di sé, della sua vita, dei suoi segreti. Senza voler analizzare la sua vita avanzando ipotesi non dimostrabili, posso comunque seguire l’intuizione che mi porta a esporre la teoria che il bulimico, in generale, abbia necessità di negoziare il suo rapporto fra ciò che è reale e ciò che non lo è.

Il mondo percepito dal bulimico è un mondo spaccato a metà dove egli esiste o in una parte o nell’altra: non sono necessariamente parti opposte, ma semplicemente separate.

Soffermandomi sulla storia che coinvolge Rachele mi prendo la libertà di ipotizzare che lo spazio che esiste fra queste due parti sia lo spazio in cui lei vive. Un mondo di mezzo, un territorio neutro che le consente di osservare le due metà senza doversi far carico di decidere di prendere posizione.

Cosa impedisca a Rachele di scegliere da quale parte stare riguarda la sua storia nello specifico, che vi esorto a leggere, e coinvolge tutte le persone che si identificano in Sigismondo che si sente chiuso nella ‘torre’ che lo isola dal mondo.

L’isolamento dal mondo rende qualunque bambino permeabile al rischio di sentirsi rinchiuso: “non scendere a giocare con i bambini che ti sporchi”, “Non parlare con loro che tanto non capiscono”, “non portiamo il bambino in spiaggia perché c’è troppa gente chiassosa” “queste erano le esortazioni dei miei genitori” precisa Rachele e sono solo alcuni comuni accenni per far comprendere quali siano le ragioni che il bulimico, interpellato a rispondere sulle cause che lo definiscono tale, adduce rispetto al suo movimento di disorganizzazione alimentare. Alcuni bulimici sostengono che nella fase adolescenziale o infantile sia accaduto qualcosa che ha innescato una reazione; molti attribuiscono la responsabilità all’atteggiamento educativo dei genitori, o alla mancanza di vere e proprie linee guida.

Chandra Livia Candani, una delle poetesse contemporanee più interessanti del panorama letterario italiano usa il termine mappe per mettere a disposizione la propria esperienza personale e raccontarci come, in assenza di una solida guida formativa, ci si possa rivolgere alle parole per orientarsi fra lo spazio creato dalla famiglia e quello del mondo esterno.

Le sfumature della bulimia, che non contiene soluzioni o suggerimenti terapici o auto terapici per affrontare il problema, serve a introdurre un dialogo che svilupperò in un prossimo articolo dedicato al ‘senso di colpa del bulimico’ e ci lascia con la curiosità di scoprire quale via d’uscita propone in merito il libro DONNE e un filo di Seta, dal Social al Libro.

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