di Caterina Civallero
Lessi il mio primo libro quando avevo nove anni. Era un libro che parlava di erbe. A quell’età avevo chiare due cose: da grande sarei diventata una scrittrice e avrei guarito le persone. La mia curiosa abitudine di realizzare i sogni e la sfortunata e magica opportunità di essere nata vissuta e cresciuta in una famiglia che si stava sgretolando sotto il peso dell’infelicità hanno permesso che si delineasse quello che definisco “il mio destino”. Termini come depressione, psicosi, nevrosi, anoressia, bulimia, isteria, alcolismo non mi furono chiari fin da subito, ma quando con l’età approdai a consultare testi scientifici per sfamare il mio appetito culturale, quando studiavo anatomia fisiologia e biologia convinta che sarei diventata un medico, allora riconobbi i sintomi di quelle malattie che circolavano in casa mia con assoluta naturalezza. Fu molto facile e ovvio per me accettare quegli schemi prendendoli per buoni, del resto era l’unico riferimento che avevo a disposizione e a quell’età non si mettono in discussione le certezze. Ma un certo istinto mi indicava che c’era qualcosa “che non andava”. Il senso del dramma era presente in ogni cosa. Ogni gesto discorso scelta o ragionamento conteneva in sé i prodromi di una scena già articolata e prestabilita. Ogni evento e avvenimento era carico di pathos. Senza dramma niente veniva preso in considerazione. La comunicazione avveniva attraverso i fatti. Le parole erano solo un fronzolo e spesso venivano usate solo per abbellire o appesantire l’atmosfera. Ricordo di risa fragorose urlate a crepapelle, lo stomaco che spingeva contro i muscoli del ventre come se volesse schizzare fuori e espandersi tutt’intorno. Quando si rideva, si rideva fino a piangere: lacrime che velavano gli occhi e smorfie di ilarità che modificavano il colore del viso e la forma dei lineamenti fino a trasfigurarli. Poi si piangeva, più spesso di quanto si ridesse. Ricordo pianti devastanti, scene raccapriccianti di dolore e disperazione, annullamento e vergogna in cui le parole irripetibili velenose e incisive sputavano addosso ad ogni cosa un ricordo indelebile. In ognuno dei due casi tutto era eccessivo. La realtà sempre distorta divenne la nostra normalità, e fu il setaccio attraverso il quale passarono tutte le mie esperienze. Un giorno, esausta, decisi che per diventare la persona che volevo essere dovevo smettere di rintanarmi nel mio passato e di usarlo per giustificarmi all’inazione. Dovevo concludere quello spettacolo demenziale che portavo in scena, più per abitudine che per convinzione, ogni giorno: io non ero i miei genitori. Io ero io. E volevo avere il pieno possesso della mia vita, senza procure, buoni sconto, o false attribuzioni di responsabilità.
Sono passati anni che pesano come secoli e finalmente ho compreso che per guarire gli altri dovevo prima curare la mia tristezza e disinfettarmi dai ricordi. Ho imparato molto e ora so che il dolore è una grande opportunità, forse la migliore per essere grandi. Nasciamo tutti con una corda appesa alla pancia e, nonostante ci venga tagliata appena debuttiamo con il nostro primo canto urlato con l’ugola gonfia di rabbia, spesso la teniamo stretta per ancorarvici con disperazione. C’è chi la stringe al collo come fosse una cravatta o un foulard all’ultima moda, altri ne conservano intatta la percezione, per abitudine, poi vi ci inciampano inevitabilmente e se ne lamentano in continuazione. E’ inutile comunque insistere: quando il nodo si stringe sempre più bisogna ammettere che sono le nostre stesse mani quelle che ci tolgono la vita e il respiro.
Oggi, quella corda, io la uso come una briglia. L’ho passata intorno al collo del cavallo che sello. Tengo in mano le due estremità con forza e convinzione e guido il mio destriero verso la direzione che intendo raggiungere. La vita va cavalcata. Bisogna smettere di vivere passivamente ogni cosa come se fossimo gli spettatori di una scena. Siamo tutti protagonisti, e tutti abbiamo la nostra opportunità. Per coglierla dobbiamo levarci di dosso un po’ di polvere e decidere di vivere. Si può, si deve. Nessuno escluso. Già, ma come? Pirandello diceva: “ognuno a suo modo”. Il mio è stato quello di provarci fino allo sfinimento. Con ogni mezzo e accettando con umiltà ogni aiuto. Per far ordine nella mia mente ho iniziato a far ordine nella mia libreria, nel mio cassetto, nell’armadio, sugli scaffali della cantina, senza sosta, anno dopo anno, convinta che alla fine qualcosa sarebbe accaduto, passando in rassegna anche le scatole delle cartoline e i barattoli dei bottoni. Per cancellare, o semplicemente ripulire e alleggerire i miei ricordi, ho usato spugna e detersivo fino a consumarmi le unghie. Non avete idea del potere che ha una giornata passata a sgrassare le piastrelle del bagno, e poi i vetri e i pavimenti. Alla fine si è così stanchi che nemmeno ci si ricorda più di avere un passato! Poi ho voluto prendere le distanze dalle cose, cambiare prospettiva e posizione e allora ho iniziato a camminare, poi a correre come Tom Hanks in Forrest Gump, solo che alla sera io tornavo a casa a dormire.
La nostra mente è un po’ come quella del computer, che neanche a dirlo è stato creato dall’uomo. Ci sono cartelle file directory e persino virus. Puoi decidere di tenere i tuoi dati alla rinfusa o ordinarli e nominarli. Puoi navigare in acque poco pulite, allo sbaraglio, prendendo per buono tutto ciò che vedi o credi di aver visto, o decidere aggiornarti e proteggerti. Puoi usare solo i programmi di base, la video scrittura e la posta elettronica o sbizzarrirti fino alla progettazione di una struttura architettonica realizzata totalmente in vetro e titanio come ha fatto Frank O. Gehry al Guggheneim Museum di Bilbao.
Insomma c’è un sacco lavoro da fare. Cosa aspetti? O forse vuoi arrovellarti e rosolarti nelle lamentele dei tuoi guai e sfortune? Si parte subito. Cosa fai? Sali anche tu in groppa al tuo cavallo o resti lì a fare l’asino? Fai tu. Ma ricorda che sei tu a scegliere.
Dimenticavo: nel frattempo leggo ancora molto dal mio primo libro, praticamente uno a settimana in media. Oggi ho cinquantadue anni, ho pubblicato e co-pubblicato sette libri e amo prendermi cura della salute delle persone; ho mantenuto intatta la mia curiosa abitudine di realizzare i sogni e l’ho nutrita attraverso l’osservazione e la decodifica di ogni cosa. Attraverso i mie vocabolari emotivi e scientifici traduco immagini, emozioni, storie, esperienze, ricordi, per questo parlo poco e “ascolto” molto.
Ho ancora un sogno nel cassetto ma non ve lo posso ancora dire…
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