Di Alessandro Zecchinato
Vorrei con questo breve articolo toccare un tasto un po’ scabroso per gli aspiranti scrittori: il rapporto con l’editor. Su questo argomento è stato detto di tutto e il contrario di tutto e io non aggiungerò certo nulla di nuovo, ma intendo esprimere il mio parere per coloro i quali avessero la ventura (o la sventura) di interagire con me.
Personalmente mi ritengo un “autore” fra virgolette, ho troppo rispetto per i veri autori per definirmi al loro livello, ma dopo alcune esperienze interessanti sia nel ruolo di scrittore che in quello di “aiutatore” (o “lettore consigliatore”, perché anche della figura dell’editor ho troppo rispetto per abusarne il titolo) mi sento di poter far notare ciò che, nel bene o nel male, ho constatato.
Io tendo ad essere il meno invasivo possibile poiché ritengo che un autore di un’opera debba poter avere la massima libertà espressiva: la lingua per me è e deve essere uno strumento per ottenere un risultato, non l’obiettivo; proprio come per il muratore il martello e la cazzuola sono strumenti per costruire la parete che è il suo obiettivo. Il modo corretto o errato di usare tali strumenti influisce sul risultato, ma pur esistendo molti modi di usarli alcuni di questi sono errati… e se il martello fosse il suo obiettivo gli basterebbe andare in ferramenta a comprarne uno. Naturalmente molti mi sbraneranno per queste affermazioni, ma tant’è… rispetto il loro parere (anche se taluni di essi non rispetteranno il mio).
Il problema della comunicazione in quanto tale è la necessità che un messaggio venga trasmesso in modo comprensibile e veicolato con qualche forma sino al ricevitore che dovrà comprenderlo e interpretarlo: affinché questo avvenga nel migliore dei modi occorre che chi trasmette (l’autore, nel contesto del nostro discorso) si impegni a farlo nel miglior modo possibile e che il mezzo di trasmissione sia tecnicamente funzionale (compito di editor, casa editrice, settore marketing, tipografia e via dicendo fino alla distribuzione, la libreria per intenderci); ma occorre anche che il ricevitore del messaggio, in questo caso il lettore, abbia le capacità cognitive e la volontà di impegnare un po’ la propria materia grigia nello sforzo di comprendere ed interpretare il messaggio che ha ricevuto.
Ciò significa che c’è un delicato equilibrio fra le varie componenti della catena di comunicazione. Se lo scrittore ha il dovere di rendersi il più possibile comprensibile, il lettore non può però esimersi dallo sforzare, quando sia necessario, la propria capacità di “comprendonio”. Non possiamo limitare eccessivamente la libertà espressiva dell’autore con le esigenze editoriali e tipografiche, pena una eccessiva omologazione degli stili che vanificherebbe la possibilità di “dipingere” al meglio emozioni, sensazioni e stati d’animo, cosa che il lettore deve saper cogliere dove gli umani limiti del mezzo “scrittura” non possono essere fisicamente superati. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia.
Lo scrittore deve saper rispettare le regole basilari della lingua in cui scrive, e le esigenze editoriali e tipografiche non possono essere scavalcate dal “novellino” nel nome di una mal interpretata libertà espressiva: il testo deve essere grammaticalmente, ortograficamente, sintatticamente e semanticamente corretto o quantomeno sensato, le licenze poetiche devono essere tali e non palesi errori o segno di arroganza. Per farla breve, se mi chiamo Calvino Italo potrò decidere di esigere che vengano pubblicate forme che sono un’eccezione alla regola, ma se mi chiamo Pallino Pinco alla mia prima proposta editoriale devo, giustamente, andarci un po’ più coi piedi di piombo. In tutto questo bailamme la collaborazione di un editor è utile, sostanziale.
Se rileggere il proprio scritto per un autore è come per un cuoco assaggiare la minestra per sapere se va aggiustata di sale (pena le ire del grande chef di turno), farlo leggere ad altre persone e sentire il loro parere è come per il cuoco proporre la sua ricetta ad altri; infatti se ciò che ho fatto per me è una leccornia perfetta, altri potrebbero non avere gli stessi gusti, e potrebbero darmi consigli utili o stupidi che io valuterò se tenere in considerazione o meno. L’ultima parola ovviamente è del pubblico, che apprezzerà o aborrirà la mia pietanza, cucinata o scritta che sia. Da scrittore mi rendo conto che è spesso possibile provare risentimento o almeno avvertire delle resistenze quando altri fanno notare delle possibili magagne o palesi errori: è umano e comprensibile, ed è anche giusto opporre resistenza quando si è certi che una data forma espressiva non è stata compresa ma la si ritiene degna.
Quando però si è alle prime armi (e personalmente ritengo anche quando si è molto esperti) occorre quel briciolo di umiltà che fa la differenza fra la sicurezza di sé e l’arroganza. Io difenderò a spada tratta la mia creazione, ma solo se e quando sarò certo del suo valore: questo se il mio obiettivo è superare tutti gli scogli che si frappongono fra la prima stesura e la pubblicazione dell’opera finita; perché se il mio scopo è scrivere per me stesso e pochi intimi, diciamocelo francamente, qualunque strafalcione va bene.
Lo dico soprattutto per coloro che partecipano a corsi di self-editing o scrittura creativa: l’atteggiamento giusto nei confronti dell’editor è quello di collaborazione. Non temete di essere giudicati o valutati, l’editor non è lì per darvi il voto come a scuola o per pensare “che obbrobri scrive questo!”.
E’ un collaboratore e un amico che ha il compito di scoprire le sviste che vi possono essere sfuggite e suggerirvi, se e dove è necessario, una diversa e più opportuna forma espressiva. Suggerirvi, non obbligarvi né valutarvi. Sarete sempre voi in fin dei conti che potrete decidere se accogliere o rifiutare i suoi suggerimenti (consigli, segnalazioni, commenti…). In questa fase entra in gioco il concetto di “lettura diagnostica”: nel momento in cui il collaboratore o l’editor che avete scelto (o sceglierete) legge insieme a voi alcune cartelle del manoscritto originale per farsi un’idea dell’eventuale lavoro correttivo da svolgere, e del vostro stile, è in grado di comprendere alcuni aspetti della vostra personalità: operare entrambi in sinergia permette, per così dire, di accordare le frequenze. Riuscire a far “vibrare” in sintonia il campo morfico permette di comprendersi più istintivamente ed efficacemente anche oltre il linguaggio parlato, ottenendo il miglior risultato possibile. Non è una gara a chi è più bravo, o istruito, o creativo: è una collaborazione fra soggetti che hanno ruoli e competenze diverse, che sommate danno un risultato maggiore della somma delle sue parti. La conflittualità è sempre presente ed in minima misura utile, oltre la “dose omeopatica” diventa distruttiva. Siccome la lingua non è una scienza esatta come la matematica ma è anche un’arte, la soggettività è un aspetto di primaria importanza: rivolgetevi all’editor o al collaboratore con cui vi sentite più “empatici”. Non siamo tutti uguali, come i pezzi di un puzzle alcuni combaciano bene molti invece no.
E non dimenticate che anche gli editor possono sbagliare, non sbranateli troppo quando succede.
Scrivere bene è una soddisfazione, ma trasmettere “qualcosa” è meraviglioso: e la collaborazione ne è la chiave!
Buona “scrittura” a tutti.
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Caterina Civallero
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