La prima volta che mi innamorai portavo ancora l’apparecchio ai denti. Pensare che Max, il mio ermetico corteggiatore dagli occhi sempre umidi di lacrime, avrebbe deciso di sua spontanea volontà di posare le sue labbra sulle mie, era più impossibile che utopico.
Vista da vicino sembravo una scatoletta di tonno aperta con l’apriscatole sbagliato: mi sentivo uno schifo, ma ero persa di lui e al ricordo dei suoi capelli profumati di mela verde, ancora oggi, provo una scossa dentro.
Avevo tentato di convincere mia madre, anzi diciamo la verità, avevo lottato con tutte le mie forze, per essere esonerata da quella vomitevole tortura di infilarmi in bocca una protesi di resina e acciaio, ma non aveva voluto sentir ragioni: «Hélène, è per il tuo bene» e con quello slogan si chiudeva ogni conflitto.
Mi ero inventata una sorta di farsa spergiurando che lo avrei indossato ogni notte, come promesso, ma il muschio viscido che stava crescendo nel bicchiere in cui lo tenevo a bagno sul mobile accanto al lavabo mi aveva tradita. Niente da fare: a casa nostra i denti da castoro non erano ammessi; io li trovavo seducenti e personalizzanti e nonostante tentassi di usare il sorriso di Brigitte Bardot per difendermi dal portare l’apparecchio non riuscii affatto a convincere quella perfezionista di mia madre. Il diastema[1] in casa nostra era bandito. Le attrici e modelle Vanessa Paradis e Laetitia Casta erano ancora in fasce quando io avevo undici anni, e non le avrei potute usare in alcun modo per sostenere il mio accorato desiderio di mantenere intatto il sorriso che la natura mi aveva creato.
Insomma, un giorno i miei genitori vennero a prendermi a scuola e a tradimento mi portarono dal dottor Hubert al 5 di Rue des deux Boules: uscii da lì due ore dopo con una specie di scatoletta di ferro piazzata in bocca; piansi per una settimana.
Poi il tempo passò e ci feci l’abitudine, mentre i miei si dovettero misurare con il senso di colpa pressante generato dal mio carattere spigoloso che, a quanto pareva, aveva tutta l’intenzione di perfezionarsi nelle sue punte. Mio padre, la sera verso le nove, passava nella mia camera: entrava senza fare rumore e mi accarezzava la testa. Era un gesto silenzioso e fiero e mi trasmetteva grande forza. Attraverso le sua mani sentivo quanto impotente fosse di fronte alle necessità di mia madre: in quella casa tutto doveva essere perfetto. Ogni bicchiere doveva brillare e cantare se strofinato, i piatti miagolavano da quanto erano puliti; lei ci passava sopra le sue dita e con orgoglio affermava: «le mie stoviglie cantano, tanto sono linde!». Tutto, biancheria, pavimenti, vetri, i libri nella biblioteca, i lampadari, anche le foglie dei pothos e dei ficus brillavano come gemme preziose. Lui e io non eravamo da meno: dovevamo essere perfetti, silenziosi e impeccabili; così quelle notti fingevo di dormire in modo che mio padre si sentisse meno sconfitto e io meno irriconoscente.
«Con tutti i soldi che spendiamo per mandarti a scuola, Hélène! Ma ti sembra il caso di vestirti a quel modo? Non si starnutisce a tavola. Se devi tossire, metti una mano davanti alla bocca e poi vai a lavarti le mani!».
Sì mamma, rispondevo dentro di me in perfetto ostile silenzio mentre mi insaponavo con il disinfettante che lei aveva cura di mettere nei dispenser: in realtà avrei voluto versarle la minestra in testa solo per vederla gridare, ma il dubbio che non si sarebbe scomposta affatto mi terrorizzava più della punizione che avrei potuto subire.
Fu Perry Mason a salvarmi, anzi per la precisione la mia salvezza fu merito di Raymond Burr: nei pomeriggi spesi a studiare, in attesa che lei analizzasse l’ordine con cui avevo compilato le pagine dei miei quaderni dei compiti, scoprii un modo nuovo di affrontare i miei problemi con lei: iniziai a prendere appunti come un vero avvocato.
Ogni volta che mi impartiva lezioni prendevo nota del giorno, orario, situazione contingente e condizione scatenante. Nel giro di due mesi fui in grado di scardinare metà delle imposizioni che dispensava come fossero leggi e, con una sfrontatezza inaudita per una ragazzina preadolescente, iniziai a sfoderare dei dibattiti estenuanti che la colsero impreparata. Con la favella mi educava e con la stessa mi difendevo. Avevo trovato il modo di rigirare quasi tutte le frittate che mi propinava portandola a dimostrami quali fossero le ragioni che animavano la sua inossidabile convinzione. Bastarono sessanta giorni e si arrese. Lo capii il giorno in cui mi portò dalla sua bustaia tre vie prima di Place della Concorde.
«Direi che è arrivato il momento» disse la proprietaria del negozio poco dopo il nostro ingresso trionfale. Era abitudine di mia madre rifornirsi solo in negozi capaci di corteggiarla con la giusta enfasi, che per me equivaleva a una viscida sequela di complimenti non richiesti, ostentati con sorrisi incorniciati da rossetti squillanti e volgari.
Ma così era, e quel giorno mi trovai in camerino a indossare il mio primo reggipetto. Non so se fu perché era chiuso in un vasetto di vetro che mi lasciai convincere a indossarlo. Ancora oggi penso a quanto geniale fu l’azienda che decise per quel packaging: un reggiseno sotto vetro, conservato come una marmellata; fu quella la fregatura, io andavo matta per quella di fragole e guarda caso il piccolo ricamo in mezzo alle due coppe era proprio una piccola fragolina rossa. Fregata e imbustata. Tornai a casa con le mie microscopiche tette in fiore che avevano tutta l’intenzione di restare in boccio per sempre e un barattolo di ricordo. Il mese successivo il dentista rimosse l’apparecchio ai denti e mia madre iniziò a convivere con le mie imperfezioni.
Da quel giorno iniziò a trattarmi come una donna e in capo a pochi mesi mi trovai ai fornelli a gareggiare con le sue ricette al forno. Mi stava trasformando in una perfetta brava ragazza da proporre in sposa, un giorno, a un buon partito. Certo era in netto anticipo sui tempi ma certe cose, per farle bene, necessitano di esercizio e lungimiranza.
Ormai eravamo diventate amiche, e per risarcirla di quei miei modi così silenziosamente sgarbati che per anni l’avevano piegata nell’animo, mi ero convinta che era giusto fare di tutto per accontentarla. La nostra sembrava una storia d’amore più che un rapporto madre-figlia.
Mio fratello Jean mi salvò da un’apocalisse senza precedenti senza nemmeno saperlo; ero a un passo dal diventare una futura massaia petulante, una di quelle donne tristi che per ostentare la propria cultura avrebbe riempito il suo salotto di futili amicizie con cui gestire biechi tornaconti.
Una domenica mattina decise di manomettere il carburatore della sua moto: si piazzò in cortile a rovistare nella cassetta degli attrezzi di nostro padre, fece parecchio baccano ma nessuno si degnò di lamentarsi. Molto probabilmente era stato messo in punizione per qualcuna delle sue esuberanze, cosa di cui andava fiero, e l’idea che stesse mettendo ordine alle sue cose sembrava per tutti confortante. Mi resi subito conto che qualcosa di strano stava accadendo sotto gli occhi ignari dei miei genitori ma tenni per me ciò che avevo visto negli ultimi giorni: per nulla al mondo avrei confessato di essere a conoscenza del fatto che nel garage c’era una enorme marmitta nuova di zecca, nera, con stampata sopra la testa di un puma su sfondo giallo, e nemmeno sotto tortura avrei detto che quella originale, grande solo un terzo, era stata nascosta dietro le valigie che erano sul quarto ripiano dello sgabuzzino in fondo al corridoio.
Jean fece baccano fino al pomeriggio ma si muoveva con una precisione maniacale che rendeva, a quel rumore diabolico, un ché di musicale. Verso le quattro andai alla finestra della mia camera per vedere cosa stava combinando e per avvertirlo che presto mamma sarebbe andata su tutte le furie a vederlo ancora lì a trafficare con le mani sporche: sentì la mia presenza, mi sorrise e mise in moto il suo capolavoro. Un rombo croccante e cristallino si diffuse nel cortile e la sua perfezione si mescolò insospettabile con i rumori di casa. Non ci voleva un diploma in meccanica per capire che la moto era stata truccata, ma diciamo che Jean l’aveva truccata bene e il risultato era eccellente. La cosa che più mi colpì della sua manomissione fu l’odore che salì dal cortile, un aroma di olio e benzina davvero favoloso. Lo so, sembra impossibile che un odore del genere potesse essere definito piacevole, ma era davvero così: non avevo mai sentito nulla di più buono! L’olio che aveva usato per creare quella miscela aveva tolto alla benzina quell’odore acre e violento che di solito ha, e le aveva conferito un aroma decisamente selvaggio. Chiesi a Jean di portami a fare un giro e promettemmo alla mamma che alle sette ci avrebbe trovati, come sempre, seduti a tavola ben vestiti e con i capelli puliti.
Fu così che mi fece salire, lo strinsi forte forte, sganciò il cavalletto e uscimmo in strada a far ruggire la sua moto potenziata: una sensazione straordinaria. Ogni volta che Jean dava gas per dimostrarmi il suo prodigio una nuvola di fumo azzurro ci avvolgeva e io ridevo come una matta. Jean non so bene cosa pensasse di me ma ricordo alla perfezione che sorrideva: era orgoglioso della sua creatura.
Di quel giorno ricordo ancora il mio microscopico reggipetto stretto che premeva sulla sua schiena, il profumo del suo collo sudato e l’aroma del Castrol che bruciava nel carburatore nuovo insieme alla benzina: ero libera! Finalmente libera da quella casa fatta di regole e puntigli.
Con Jean si consolidò un tacito rapporto di complicità che ancora ci fa ridere come matti nonostante siano passati quasi quarantacinque anni.
Quel giorno la miscela di Jean aveva fatto scattare in me una reazione a catena: moto, movimento, fuga, velocità; questa la sequenza che si era attivata nella mia mente. Non saprei definire la libertà in altro modo e, anche se comprendo che ognuno possa averne una percezione diversa, ho la convinzione che qualcuno, almeno una volta nella vita, abbia provato qualcosa di simile.”
Questo mio brano è tratto da I 19 Racconti di Amicaldi di Alessandro Zecchinato.
Hélène Millot è il personaggio creato per il mio romanzo Certe cose capitano solo a te.
[1] Il termine, che deriva dal greco, significa intervallo e intende la distanza che esiste fra due denti vicini. La forma più comune di diastema è la cosiddetta “finestra”, ovvero lo spazio che si presenta tra i due denti incisivi superiori centrali della bocca.
Caterina Civallero
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